Un ospite velenoso nei nostri mari: informarsi sì, allarmarsi no

Il 6 agosto, durante un’immersione per campionamenti e studi scientifici, gli speleosub del Centro di Speleologia Sottomarina Apogon di Nardò hanno avvistato e filmato un esemplare di pesce scorpione in una cavità sommersa lungo la costa di Santa Caterina. L’avvistamento, primo caso ufficiale in questa località ma non in Salento né in Italia, è stato documentato dal biologo marino Michele Onorato insieme al collega Damiano Zaza dell’Università di Bari.

L’avvistamento è avvenuto nella Grotta delle Tre Furneddhe, dove i due studiosi erano impegnati in campionamenti di fango. Privi di attrezzatura per la cattura, hanno preferito filmare l’animale e segnalare la presenza alle autorità. Il pesce scorpione (Pterois miles), noto anche come pesce leone, appartiene alla famiglia Scorpaenidae ed è originario dell’Oceano Indiano e del Mar Rosso. Da alcuni decenni, a causa del surriscaldamento globale, è entrato stabilmente nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

Per chiarire quali rischi questo pesce possa rappresentare per l’uomo e per l’ambiente marino, abbiamo sentito Daniele Vigna, dottore in Scienze Ambientali.

Vigna sottolinea innanzitutto l’aspetto più importante: il Pterois miles possiede un apparato velenifero costituito da raggi cavi nelle pinne dorsali, laterali e anali, all’interno dei quali si trovano ghiandole che secernono una sostanza a base di ciguatossina. «Non va mai maneggiato a mani nude», spiega. «Una puntura provoca un avvelenamento da contatto con forti dolori, infiammazione, eritemi, gonfiore e cambiamenti di colore della pelle. È bene ricordare che, pur essendo le sue carni commestibili, il veleno è termoresistente: anche dopo la cottura possono persistere rischi».

Riguardo alle modalità di arrivo, Vigna ricostruisce una probabile traiettoria migratoria di questa specie: «La sua presenza nel Mediterraneo orientale è documentata dal 1992-93. Oggi si sta diffondendo verso ovest, favorita dall’aumento della temperatura media dei mari. Il Canale di Suez è stato la porta d’ingresso principale, ma non si escludono arrivi anche dall’Atlantico».

Infine, sull’eventualità di un incontro diretto, l’esperto invita alla prudenza e alla collaborazione: «Chi lo avvista deve segnalarlo tramite i canali ufficiali, come ISPRA o Oddifish, allegando foto, data e luogo. Se pescato, l’esemplare non deve essere assolutamente manipolato. Dal punto di vista ecologico, il pesce scorpione è un predatore vorace che si nutre di piccoli pesci, compresi gli stadi giovanili di specie commercialmente importanti. Anche per questo la sua presenza merita attenzione».

Per contestualizzare il fenomeno, abbiamo chiesto un commento a Massimo Toma, biologo ed ecologo.

Toma spiega che l’arrivo di organismi marini non autoctoni non è un fatto recente: da decenni ricercatori, aree marine protette, Capitanerie e cittadini osservano e registrano la comparsa di specie indo-pacifiche, alcune innocue, altre potenzialmente dannose o velenose. Questi arrivi sono legati a più cause, tra cui il cambiamento climatico, l’innalzamento della temperatura del mare e fenomeni antropici.

Il pesce scorpione, in particolare, predilige fondali compresi tra i 60 e gli 80 metri, con avvistamenti anche oltre i 150. I contatti diretti con i bagnanti sono quindi estremamente rari, ma la sua diffusione deve essere seguita con attenzione per valutarne l’impatto sugli ecosistemi. L’obiettivo, ribadisce Toma, non è spaventare ma informare: conoscere la specie e segnalarne la presenza è il modo migliore per contribuire al monitoraggio scientifico e alla salute degli appassionati di immersioni .

Il pesce scorpione è solo l’ultima delle specie aliene che popolano i nostri mari, frutto di mutamenti climatici e dinamiche ecologiche in atto da decenni. Grazie a una rete di monitoraggio che unisce scienza e cittadinanza attiva, è possibile seguirne la diffusione e intervenire, se necessario, per contenere eventuali danni agli ecosistemi.

In questi giorni, però, molti titoli di giornale hanno scelto toni eccessivamente allarmistici, trasformando l’informazione scientifica in sensazionalismo. È lo stesso copione visto di recente con lo squalo avvistato lungo le nostre coste: un episodio naturale, interessante dal punto di vista biologico, ma ingigantito fino a generare paure infondate.

Allarmarsi non serve. Serve conoscere, osservare e collaborare: solo così si proteggono davvero i nostri mari.

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